domenica 20 dicembre 2009

LA VIOLENZA IN ITALIA VISTA DA UN DOCENTE

CLAUDIA CALABRESE

Con questo messaggio mi inserisco nella discussione sulla violenza che ha preso l’avvio dal brutto episodio di Piazza Duomo a Milano, ma che a mio parere è matura già da diversi anni in Italia. Naturalmente sono contraria a qualsiasi forma di violenza, tuttavia ritengo ingiusto che in questo Paese se ne parli soltanto in relazione a quanto accaduto al Presidente del Consiglio, tanto più se nella discussione si introducono strumentalizzazioni e forzature demagogiche che alimentano una spirale perversa di ritorsioni.
Esistono forme di violenza meno eclatanti, ma insidiose, quotidiane, sotterranee che agiscono sull’individuo trasformandolo nel corso del tempo in una persona in preda all’esasperazione ed alla frustrazione. E’ quello che accade ogni giorno a me e certo a molti miei colleghi, nonché a innumerevoli cittadini di questa Italia che mi sembra stia da tempo decadendo sotto il profilo morale, civile e culturale. Dove l’individuo non conta per quello che è e che fa, ma per ciò che possiede, o peggio per come e quanto appare sui media e dove ruoli socialmente importanti, per ricoprire degnamente i quali sono necessari anni di studio e d’esperienza, vengono sviliti dagli stessi governanti.
Gli insegnanti per esempio non valgono nulla nella considerazione generale. Non è forse violenza quella che molti di noi subiscono quotidianamente? Io sono docente di lettere in una scuola media. Quest’anno sono stata, come diversi miei colleghi, trasferita d’ufficio – a causa dei tagli alla scuola – in un Istituto a 45 km da casa. Impiego un’ora per arrivare a scuola e altrettanto tempo per tornare a casa (l’unica strada da percorrere, la provinciale 16, è pericolosa, impervia). E’ ovvio che ogni volta che ci sono riunioni, consigli, aggiornamenti pomeridiani rimango a scuola, spesso superando le 10 ore giornaliere di permanenza nell’Istituto. Sono pagata (conosciamo tutti gli stipendi da fame degli insegnanti) per 18 ore settimanali e ne faccio il doppio (considerati anche i tempi per gli spostamenti). Ho subito un infortunio in itinere qualche mese fa riportando una frattura alla seconda vertebra cervicale e sono costretta a guidare ogni giorno per 90 km. L’INAIL mi ha riconosciuto a giugno 2009 un’invalidità del 15% e il mese dopo, quale premio, ho “ottenuto” da un potere imperscrutabile e inappellabile il trasferimento d’ufficio nella scuola suddetta. Essendo in cura non posso trasferire il domicilio nel paese dove si trova la scuola (San Vito Lo Capo, Trapani) e in ogni caso il nostro stipendio non ci consente di mantenere più case. Non è forse violenza questa?
Nella scuola dove insegno ci sono non pochi problemi con i genitori, che oramai si permettono di invadere l’istituto, inveendo contro un’insegnante, colpevole, per fare degli esempi, di cambiare posto nella classe ai loro figli, o magari di scrivere sul registro una nota disciplinare. La scuola è cambiata e gli insegnanti non sono messi in condizione di svolgere dignitosamente la loro professione, che dovrebbe essere importante per la formazione dei cittadini di questo Paese. E si manifestano continue tensioni in classe perché la collaborazione tra scuola e genitori è un obbiettivo solo dichiarato e non praticato, la burocrazia scolastica si muove su binari che nulla hanno a che fare con il rapporto docente-discente, i governanti paiono attenti solo al problema del consenso e ai conti che devono tornare indipendentemente dall’efficacia della funzione insegnante. Ora i docenti devono persino giustificarsi con i genitori, che in buona misura hanno dismesso il ruolo di educatori per ricoprire quello degli avvocati difensori sempre e comunque dei loro figli, e con gli alunni per un brutto voto, per una nota, per essersi rifocillati in classe. Accade anche questo, con il rischio tra l’altro di essere immortalati in qualche video su youtube.
Non contano gli sforzi per trasmettere un po’ di cultura e valori agli alunni, per metterli in condizione di conquistarsi un’autonomia di giudizio, che è la precondizione per l’esercizio di qualsiasi libertà, non contano gli sforzi per dialogare con loro nel modo migliore, per capirli, conoscerli, istruirli …. Non è forse violenza questa? E non è forse comprensibile e conseguente un calo della motivazione, dell’entusiasmo, della voglia di insegnare?
Certo io non ignoro che noi insegnanti di ruolo siamo in fondo dei privilegiati rispetto alle migliaia di precari che devono lottare ogni giorno per avere la possibilità di insegnare e che vengono cancellati da un giorno all’altro da governanti indegni di questo nome. Riprendo il discorso sulla violenza iniziato con l’accenno a quanto accaduto a Milano: come si può considerare il taglio di 140.000 posti ed 8 miliardi di euro in 3 anni deciso dai ministri Tremonti e Gelmini, come il licenziamento dei precari, come l’affollamento delle classi, come le “riforme” imposte e non discusse, come il taglio al sostegno? Non è forse violenza questa?
Ora, ciò che mi chiedo, non solo come insegnante, ma come cittadina, è se si ha consapevolezza che le tensioni che si agitano in questa nostra società hanno ormai superato il livello di guardia ed i governanti stessi, gli esponenti, a volte indegni, della classe dirigente di questo Paese non fanno altro che alimentarle, spesso per un miserabile calcolo di bottega. Dove stiamo andando? E qual è invece la direzione da prendere? Dopo la laurea ho deciso di lasciare la Sicilia perché mi rifiutavo di lavorare in una scuola privata per il punteggio e 200 mila lire al mese, mi rifiutavo di stare in una terra senza alcuna prospettiva, che tuttavia amavo e, come tanti, sono emigrata: sono andata in Austria, a Vienna, dove ho lavorato per alcuni anni all’OSCE. Poi, dopo un’esperienza a Roma, in Alitalia, dove il merito contava meno di zero, ho deciso di tornar nella mia Sicilia e di insegnare, contenta e motivata per il fatto che sentivo di avere qualcosa da trasmettere ai giovani: esperienza, conoscenze, valori, una visione del mondo un po’ più ampia … Sbagliavo. L’amarezza di oggi ha creato una frattura che temo insanabile dentro di me, mentre penso di tornare all’estero, dove le condizioni di vita appaiono migliori, i meriti riconosciuti, il livello di civiltà più alto. E non credo proprio che il mio sia un caso isolato.

Non è forse violenza questa?

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